Giorgio Napolitano. Quando al Colle c’era la nebbia.

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“Non mi sottraggo a questo nuovo impegno, ma lo faccio sapendo che in quest’aula, nei giorni scorsi, si è creata una serie di omissioni, guasti e irresponsabilità”. Parlava così Giorgio Napolitano a Montecitorio in occasione della sua rielezione a Capo dello Stato, il 22 aprile 2013. Un discorso durissimo, un monito a onorevoli e senatori che non erano riusciti a condividere un nome nuovo per la elezione del XII Presidente della Repubblica Italiana. Mai successo prima.

Napolitano fu il primo (e ultimo) ex comunista a rivestire la carica più alta dello Stato. Nelle file del PCI dal 1945, fu eletto alla Camera per la prima volta nel ’53. Allievo di Giorgio Amendola, si schierò a destra nel partito, nella corrente dei riformisti. Fu una prima volta anche quella in cui fu nominato Ministro degli Interni. All’epoca del primo governo Prodi, nel ’96. Al Viminale c’era stato sempre un democristiano. Nel partito fu tra i papabili successori di Luigi Longo alla segreteria nazionale. Ma a marzo del ’72 la spuntò un certo Enrico Berlinguer, col quale, già prima, i rapporti non furono certo idilliaci. Dalla “questione morale” lo scomparso Presidente prese decisamente le distanze. Non condivise la linea di rigore imposta dal segretario, tanto da guadagnarsi l’etichetta di migliorista. E quando ci fu la rottura coi socialisti di Bettino Craxi, Napolitano si avvicinò, e non di poco, alla linea moderata dettata dall’esule di Hammamet condividendone l’idea di socialdemocrazia europea. Dello scandalo di Tangentopoli condannò le tesi giustizialiste. E quasi a sorpresa, nessuno sapeva dell’iscrizione a parlare, intervenne nel ’94 nel dibattito sulla fiducia al primo governo di Silvio Berlusconi. Con stretta di mano finale da parte del Cavaliere.

Nel novennio quirinalizio il Presidente, pur nel rispetto della Carta Costituzionale, spesso ne ha sfiorato i limiti. Con estremo garbo ma pure con marcato decisionismo è intervenuto sovente nelle decisioni dell’Esecutivo specie quando quest’ultimo era sul punto di formarsi. Destò non poca perplessità il veto espresso a Matteo Renzi sulla nomina di Nicola Gratteri a Ministro della Giustizia. Per il dicastero trasteverino si preferì Andrea Orlando. Ma il punto più basso della sua presidenza Napolitano lo registrò durante le indagini sulla trattativa Stato-mafia. Ancora oggi non si conoscono i contenuti delle telefonate intercorse tra il Presidente della Repubblica e l’allora Ministro degli Interni Nicola Mancino, indagato. Forse mai si conosceranno. Già, perché il Colle, confermato l’inquilino, ordinò ed ottenne la distruzione delle bobine che la DIA conservava e sulle quali erano registrati gli oscuri colloqui. Ancor prima della scadenza del primo mandato presidenziale, la Corte Costituzionale aveva convocato a Roma i giudici palermitani. I quali, senza esitare, definirono le intercettazioni “casuali ed irrilevanti per le indagini”.

A novembre del 2011 forse l’errore più grossolano commesso da Giorgio Napolitano. Quello di mandare a casa il governo Berlusconi che tre anni prima aveva vinto le elezioni. Peraltro senza che il Parlamento l’avesse sfiduciato. Sembra che Mario Monti, chiamato alla formazione di un governo tecnico, fosse già stato preallertato, fin dall’estate, dal Presidente. Il Colle mai ha smentito la vicenda. Resta la gravità della scelta, che ha fatto ipotizzare un vero e proprio complotto. Tanto più che a detta di esperti, e non solo, nulla c’entravano sia la paura per lo spread sia il timore di un default come successe in Grecia.

Qualcuno ha definito Giorgio Napolitano il peggiore Presidente della storia repubblicana italiana. Noi non sosteniamo questo, ma certo dal 2006 al 2015 al Quirinale è prevalsa una certa aria di intromissione in faccende d’altri. Che spesso ha comportato un allargamento quasi posticcio dei poteri del Capo dello Stato.