Chi ha rubato (davvero) Monna Lisa? La “bufala” e la Storia
Assolto per non aver commesso il fatto. Già, perché Napoleone Bonaparte, col furto de La Gioconda, proprio non ha mai avuto a che fare. E non sono supposizioni, bensì fatti storici che raccontano come siano andate realmente le cose. Certo, il Generale transalpino ne ha trafugate di opere dai nostri musei, ma il ritratto di Monna Lisa non può annoverarsi tra queste. Ciononostante, quel falso mito, oggi parleremmo di “fake”, ha dominato per anni l’immaginario collettivo. Ancora oggi sono in tanti a crederci. Mistero. O forse il frutto di una profonda delusione che il quadro, tra i più belli ed enigmatici del mondo, possa tuttora trovarsi nelle mani dei cugini francesi. Ma tant’è.
Di vero c’è il fatto che il buon Leonardo vendette, di persona, quello che poi si rivelò un capolavoro mondiale. Francesco I di Francia gli offrì quattromila ducati d’oro. Affare fatto. Già prima, nel 1516, saputo della crisi creatasi tra Leonardo e i Medici di Firenze, il sovrano francese gli offrì persino una nuova dimora. Fu il castello di Clos Lucé di Amboise, nella Loira, ad accoglierlo, con la fresca nomina, peraltro, di primo pittore e architetto della Corte.
Chi, intanto, non si vide mai consegnare l’opera, fu Francesco del Giocondo, un mercante fiorentino che aveva commissionato al genio il ritratto di sua moglie, tale Lisa Gherardini. Manca il colpo di scena finale della vicenda. Siamo nel 1911 e da diversi decenni si sta diffondendo la credenza secondo la quale, appunto, sarebbe stato Napoleone, durante la Campagna d’Italia, a sottrarci il meraviglioso sorriso della Signora. Potremmo definirla una autentica leggenda metropolitana.
Qualcuno però ci crede più di ogni altro e passa all’azione, mettendo a segno il furto del secolo. Lui si chiama Vincenzo Peruggia, un anonimo imbianchino di Varese, italiano dunque, che all’epoca dei fatti, siamo ad agosto del 1911, sta lavorando proprio al Museo del Louvre. Dichiarerà, una volta scoperto, di averlo fatto per amor di patria, non certo per danaro. E pensare che aveva agito in maniera egregia, senza lasciare traccia, né alle guardie del museo né sul Parigi-Milano, al ritorno in Italia. Furono coinvolti nelle indagini il poeta Guillaume Apollinaire e il pittore Pablo Picasso. Per entrambi le accuse risultarono infondate. Per un paio d’anni Peruggia tenne il quadro gelosamente custodito. Poi decise che per sole 500mila lire l’avrebbe “girato” alla Galleria degli Uffizi, a Firenze. Col patto che da lì non si sarebbe più mosso.
Fu l’epilogo che lo portò dritto al processo, svoltosi nel 1914. Se la caverà, anche per una riconosciuta infermità mentale, con soli sette mesi di prigione. Le autorità italiane restituirono il ritratto alla Francia. Ma la vicenda registrò una vasta eco sui giornali dell’epoca.