Presidenziali USA: come si vota. Le regole (discutibili) e le difficoltà a cambiarle
Il prossimo 5 novembre si voterà per eleggere il 47° Presidente degli Stati Uniti. Proviamo, in queste righe, a chiarire le regole del sistema elettorale americano che appare, lo diciamo subito, molto diverso da come lo intendiamo noi. Cominciamo col dire che, per essere eletto presidente, bisogna avere almeno 35 anni, essere cittadino statunitense sin dalla nascita e risiedere negli States da almeno 14 anni. I suoi poteri, ma anche i casi in cui può essere destituito (l’impeachment), sono indicati, insieme con le norme per la sua elezione, all’articolo 2 della Costituzione, promulgata nel 1789. Lo stesso articolo della Carta istituisce il Collegio Elettorale cui conferisce il compito di eleggere il Presidente degli Stati Uniti d’America. U
n Organo ad hoc, visto che esso, seppure eletto ogni quattro anni, non ha alcuna altra funzione istituzionale. “It’s a Process, not a Place” si legge, a tal proposito, sul sito dei National Archives. Il Collegio è costituito dai Grandi Elettori, figura semisconosciuta nel nostro ordinamento, ma dal ruolo fondamentale nel meccanismo di voto americano. Essi sono i delegati, per così dire, dei cittadini che si iscrivono al voto.
E dunque, se ne deduce che gli elettori americani, diversamente dal suffragio diretto di altri governi presidenziali, votano il loro presidente in modo indiretto. Lo fanno nel famoso Election Day del quale vi racconteremo appresso alcune curiosità. Lo United States Electoral College, il Collegio appunto, è formato da 538 membri, 535 dei quali sono eletti con la stessa proporzione, Stato per Stato, con cui si eleggono i membri del Congresso, l’Organo del Potere Esecutivo. Quest’ultimo, formato dai 435 rappresentanti della Camera Bassa e dai 100 senatori della Camera Alta.
A questi ultimi si aggiungono, ma solo in occasione delle elezioni presidenziali, i 3 rappresentanti di Washington, Distretto di Columbia. All’epoca, infatti, i padri fondatori della federazione ritennero che, per non privilegiare gli elettori della Capitale, sede peraltro del Congresso stesso, nessun rappresentante potesse essere eletto nel District of Columbia. Quelle regole, a ben vedere, resistono, intatte, ancora oggi, pur essendo oggetto di frequenti contestazioni. Detto che occorrono 270 voti per essere eletto presidente, dobbiamo pure dire che il sistema elettorale statunitense, per come è concepito, può riservare sorprese, e non di poco conto.
Non capita spesso, ma è capitato, e può succedere ancora, che il voto popolare non sia suffragato da quello espresso dai Grandi Elettori. È successo cinque volte nella storia. Due delle quali, in questo millennio. Curiosamente in tutti e due i casi a soccombere è stato il candidato democratico. Hillary Clinton, nel 2016, si è dovuta arrendere a Donald Trump pur avendo ottenuto circa tre milioni di voti in più. Lo stesso capitò ad Al Gore nel 2000. Quando fu eletto George W. Bush che incassò 500 mila consensi in meno. Non si esclude che la grave incongruenza possa verificarsi anche in questa tornata elettorale il cui risultato si annuncia assai incerto. Un limite davvero grossolano, quasi un equivoco che i padri costituenti forse neanche potevano immaginare potesse crearsi, quando affermavano che l’elettorato, a quei tempi, non avesse avuto informazioni adeguate sul conto dei candidati. Da qui la nascita del Collegio.
È palese che “qualcosa andrebbe fatta”, e pure presto, visto che l’opinione pubblica appare piuttosto divisa e i tentativi di “correre ai ripari” risultano molteplici e remoti. Le obiettive difficoltà per una riforma della Costituzione o per l’eliminazione del Collegio Elettorale inducono al pessimismo gli esperti. Un qualsiasi provvedimento o progetto in tal senso, se pure passasse facile alla Camera dei Rappresentanti, al Senato avrebbe nessuna possibilità di cavarsela. Visto che alla Camera Alta è prevista la maggioranza dei due terzi. Si consideri che i 435 rappresentanti alla Camera vengono eletti in ciascuno dei 50 Stati federali in proporzione alla popolazione. Del tutto diverse le regole al Senato. Ogni Stato elegge per il Congresso 2 senatori. Indipendentemente dalla sua popolazione. Ne consegue, in maniera anche lapalissiana, che gli Stati piccoli abbiano un peso di gran lunga maggiore rispetto ai grandi. E l’ostruzionismo si rivela il più delle volte un’arma fondamentale per affondare sul nascere i propositi dei “grandi”.
Tutto ciò suona ancora più strano se pensiamo con quanta cura si sia stabilito all’epoca il giorno dell’Election Day. Quasi un aneddoto quello che vi raccontiamo, per chiudere.
Proviamo a capire il motivo per il quale il giorno delle elezioni cada sempre di martedì. Precisamente il martedì successivo al primo lunedì del mese di novembre. Non certo per questione di cabala.
Il meccanismo fu introdotto dal Congresso nel 1845 e la motivazione stava nel fatto che quei primi giorni di novembre costituissero per i contadini un periodo di scarsa attività. Del tutto evidente la considerazione per la società, che all’epoca era prevalentemente agricola. Furono scartati la domenica, già allora giorno di riposo, e il lunedì che avrebbe obbligato a partire per i seggi il giorno prima, visti i mezzi di allora. Si rinunciò persino al mercoledì perché era il giorno in cui il raccolto si portava al mercato. Si va quindi sul martedì. Confermato ancora oggi, dopo quasi due secoli. Davvero incredibile.